Fierravanti, un calcio… a 5 alla disabilità

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Una domenica mattina fredda e nebbiosa del Dicembre 1988. Una squadra di Giovanissimi che, accompagnata dai genitori che mettono a disposizione la propria auto, come in tutte le società di provincia che si rispettino, sale da Pavona a Rocca di Papa per disputare una gara di Campionato. A bordo delle auto l’allegria di un gruppo di adolescenti, le battute, gli sfottò, le solite raccomandazioni di prima della partita.

Poi, il dramma. Il rumore delle lamiere che si contorcono, le urla di paura, le imprecazioni, i pianti e il suono delle sirene delle ambulanze che accorrono sul luogo dell’incidente.

Un ragazzino di tredici anni, Michele Fierravanti, si risveglia immobilizzato su un letto di ospedale. Accanto a lui i volti disperati di mamma Maria e papà Antonio e il terribile verdetto dei medici: Michele non camminerà più. La lesione alla colonna vertebrale lo costringerà ad avere la sedia a rotelle come compagna di tutta la vita.

Michele, come hai vissuto quella drammatica notizia?

” A dire il vero, con un pizzico di incoscienza dovuta all’età. Avevo la percezione che era successo qualcosa di brutto. Lo leggevo negli occhi dei miei genitori e nella gentilezza dei medici che mi curavano. Poi ho metabolizzato che da quel momento avrei avuto una esistenza diversa da quella dei miei coetanei.”

E come ti sei comportato?

“Paradossalmente ho cercato di ritrovare nella vita, quello che sembrava che le circostanze mi avessero tolto per sempre, lo sport. E sullo sport ho basato la mia voglia di farcela e di superare quei momenti drammatici. E’ stato l’allenamento costante, la voglia di superare i limiti che la disabilità mi imponeva che ha fatto di me uno sportivo a tutti gli effetti.

E che è accaduto?

“Ho cominciato a praticare quelle discipline che il mio stato mi consentiva, come il nuoto, la scherma, il basket in carrozzina. Oltre alla mente, anche il mio corpo ne traeva beneficio, aiutandomi a gestire quelle problematiche che attanagliano le persone che hanno la mia stessa patologia. Sono diventato, di fatto, un atleta professionista.”

Come hai scoperto il Calcio a cinque?

“Nel 2005 una Società di Pavona, l’Atletico, mi chiese di allenare una squadra di ragazzini che si avvicinavano per la prima volta al Futsal. Molti presero per pazzi quei dirigenti ( ride ) o, al massimo, lo videro come un bel gesto di solidarietà verso un ragazzo disabile. Poi però cominciarono ad arrivare i risultati. I ragazzi giocavano bene e la squadra vinceva. Allora, piano piano la carrozzina scompariva e rimaneva l’allenatore. Un allenatore da applaudire o da fischiare, ma solo un allenatore.”

Quali sono state le soddisfazioni che ti ha dato questo sport?

“Sicuramente il momento più bello è stato quando il Presidente del Comitato Regionale, Melchiorre Zarelli, insieme a Pietro Colantuoni ( Delegato Regionale per il calcio a Cinque ndr ), mi affidarono la conduzione della Rappresentativa del Lazio al Torneo delle Regioni in Umbria, nel 2010. Una esperienza bellissima, dove, per la prima volta mi sono confrontato con tecnici e formazioni di altissimo livello, ma soprattutto dove ho trovato chi ha creduto in me solo come Allenatore e come uomo di sport.”

E come è andata?

“Dal punto di vista sportivo, un mezzo disastro. Nonostante la squadra, a detta di tutti, praticava un bellissimo futsal, riuscimmo a vincere solo una gara con il Molise e ci arrendemmo di fronte a compagini zeppe di calciatori sudamericani. Ma dal punto di vista umano, fu una esperienza irripetibile, al termine della quale fui chiamato dalla Federazione di Wheelchair Hockey ( l’Hockey su pista praticato da atleti in carrozzina ndr ), per prendere la guida della Nazionale Italiana, che si apprestava alla fase di preparazione per gli Europei in Finlandia.”

E che ci azzecca l’Hockey con il Calcio a cinque?

“Paradossalmente sono due discipline esattamente sovrapponibile, seppure così apparentemente diverse. E nell’Hockey sono riuscito a portare la tattica e le innovazioni proprie del Futsal. Tra le altre cose, pratico l’Hockey anche da giocatore, dove gli addetti ai lavori mi considerano tra i tre migliori giocatori al mondo di questa disciplina. Se è vero non lo so, ma certamente mi fa molto piacere.”

In conclusione, che messaggio lanceresti ai ragazzi che si avvicinano a questo sport?

“Di viverlo come un divertimento certamente, ma anche come un impegno serio e una scelta di vita. Per me entrare in questo mondo è stato il modo di dimostrare che ciascuno di noi può avere un ruolo importante per la crescita di tutti. Solo così si possono superare quelle barriere fisiche e soprattutto mentali verso le persone diversamente abili, che  ogni paese civile deve e può abbattere.”